Parlavamo di ragioni,
delle onte perpetrate con il piombo,
con la calce, sullo spirito bambino.
Mi tenevi con dolcezza,
qualche volta sorridendo
con lo sguardo. Ti volevo
come vogliono l’approdo i marinai
dopo giorni di tempesta.
Parlavamo di ragioni,
delle onte perpetrate con il piombo,
con la calce, sullo spirito bambino.
Mi tenevi con dolcezza,
qualche volta sorridendo
con lo sguardo. Ti volevo
come vogliono l’approdo i marinai
dopo giorni di tempesta.
E se l’universo avesse coscienza?
Secondo il panpsichismo la coscienza è inerente anche ai più piccoli pezzi di materia – un’idea che suggerisce che i mattoni fondamentali della realtà hanno un’esperienza cosciente. Fondamentalmente, implica che la coscienza possa essere trovata in tutto l’universo.
Introduzione di un articolo reperibile su Reccom Magazine, all’indirizzo https://www.reccom.org/e-se-luniverso-avesse-coscienza/
Secondo questa teoria, chiamata “Panpsichismo” , il punto non è stabilire cosa è cosciente e cosa non lo è. Poiché ogni cosa è composta da connessioni di particelle e quindi ha una certa quantità di coscienza ( definita come “Phi” ), il punto sarebbe semplicemente quanto una cosa è cosciente.
E’ un unico organismo,
se ci pensi,
che persegue l’obiettivo.
Guardi meglio e c’è qualcosa
che surclassa la ragione,
che provando a dargli corda
ti rivela la tua parte,
la precisa posizione.
È un unico organismo:
siamo noi. Va tutto bene.
Non vogliamo fare molto per capire, persistiamo
nella corsa delle lepri quando scartano di lato
per cercare di salvarsi le calcagna,
ci buttiamo nei cespugli di brughiera, stando fermi
come i sassi. Basterebbe forse poco: cavar fuori
dalla bocca l’uno all’altra (e viceversa) la parola
che non viene, piantumarci dentro a un cerchio
a vaneggiare, a darci tanti soprannomi , tutti brevi,
deliziose troncature.
Ritrovandoti mi faccio spettatore, corpo morto
manovrato poco e male. Tu sorridi ma non parli,
io ti guardo ponderando tutti i gesti nello specchio
della mente. Poi d’un tratto riconosco le tue dita
sulla nuca che mi spingono sul fiore. Sei venuta
per salvarmi, come sempre.
Diamo credito al pensiero più profondo,
per vedere nell’essenza, fino al vero,
valicando l’illusione che chiamiamo realtà.
Guarda, è chiaro?
Tutto regna solamente nel tripudio di energia.
Questo Dio che cercavamo
scandagliando in ogni luogo,
senza mai portare a casa una risposta,
siamo noi, ne siamo parte.
Penso sempre se sia il caso
di parlare (di parlarmi) di noi due. Quanto fosse
scandaloso e innominato il nostro frutto,
del perché l’asincronia – assoluta, si direbbe –
non prendesse neanche un punto d’importanza,
proprio niente. Al comando solo noia
perniciosa e onnipresente: lavorava sugli istinti,
dentro al vuoto di potere dei pensieri.
Si è fissata poca luce,
la visione di qualcosa che si muove dietro ai fori
praticati nelle porte di un armadio.
C’era caldo, oppure freddo. Tante volte
non ricordo come stavo. Ma il sapore.
Ritrovarci poco a poco allo scoccare
della freccia, l’onta franca dell’esistere
incompiuto, la ragione di noi stessi
come cani sopraffatti nella nebbia
dell’olfatto, col guinzaglio che strattona
e loro niente: si abbandonano al trasporto,
fanno ciò che il senso impera,
sconquassati d’empatia.
Avevamo poco tempo, sopraffatti
dall’urgenza: demolire, rifondare,
sulla scorta delle penne al pomodoro
sul pianoro di linoleum del bar.
Gli imbarazzi da gestire nello specchio
alle tue spalle, superarli e poi la gente
che al bancone cura l’ego col caffè.
— Che ne dici, esorbitiamo?
E’ il percorso a fare tutto. Non fa altro
che forzarti a fare scelte, calcolando
tutti i rischi e i benefici. Poi ti svela
che di fatto non c’è uscita,
non avrai La Soluzione.
Resta poco, darsi pena
come il topo vive e trema
nell’istante che intercorre
tra il sapore del formaggio
e lo schianto della molla.